Jovanotti – RSI Lugano

Intervista di Gloria Bressan per Tuttoitalia.ch del 06 febbraio 2018

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Jovanotti, ancora For President!

In attesa del concerto del 21 giugno all’Hallenstadion incontriamo Lorenzo Cherubini ospite della RSI in Ticino.

Negli studi della Radiotelevisione Svizzera, a Lugano, dove si è tenuto lo showcase a lui dedicato, il clima è quello dei grandi eventi e tra gli addetti ai lavori c’è una forte attesa per la conferenza stampa a cui partecipiamo anche noi di Tuttoitalia.ch

Lorenzo Cherubini lo conosciamo e soprattutto lo riconosciamo in tutte quelle canzoni che ci hanno accompagnato nella nostra crescita e che ci permettono di associarlo anche ad alcuni episodi di vita privata in cui il suo repertorio faceva da sottofondo: lui è il ricordo della fine degli anni 80, di Gimme Five, delle discoteche e del servizio militare, lui è la presa di coscienza degli anni 90 con la scoperta della multiculturalità dell’Ombelico del Mondo, è la ballata di A te sussurrata alla figlia, è il poeta con le scarpe piene di passi  ma soprattutto lui, con il suo atteggiamento lontano dall’essere una star irraggiungibile, è semplicemente il ragazzo che si ritiene fortunato ma con talento da vendere.

Jovanotti compie 30 anni di carriera e 51 anni di vita ma non è solo l’abbigliamento o il cappello che gli negano l’aspetto di un cantante vissuto. È il suo atteggiamento socievole, la schiettezza nell’esprimersi e la voglia di reinventarsi continuamente che celano l’età anagrafica di un artista che continuiamo a considerare, con un aggettivo ormai obsoleto ma letterale, un giovanotto.

Il nuovo album Oh Vita! è, infatti, una sperimentazione con sound atipici per l’artista che conferma il bisogno di toccare corde nuove. Ed è proprio su questa tematica che inizia la conferenza stampa:

Lorenzo, possiamo definire il tuo album essenziale cioè una raccolta a cui al posto di aggiungere hai tolto qualcosa a te stesso?

È un’affermazione che ripeto da talmente tanto tempo di cui inizio a dubitare…evitando le definizioni direi che è un disco di Jovanotti prodotto da Rick Rubin e non poteva essere diverso. Ho seguito un’inclinazione che mi ha permesso di variare la tipologia di canzoni dell’album con tante sfumature e posso definirlo spazioso, poco riempito di suoni. È un ritorno ad usare anche strumenti essenziali come feci con “Una tribù che balla” e che, grazie alla collaborazione di Rubin ho ritrovato ed esaltato. Nelle mie produzioni c’è stato il rap ma anche la musica pop che riflettevano il sound di cui ero innamorato in quel momento. Ultimamente non mi piaceva più e ho deciso di cambiare per lavorare su un album che potrebbe deludere i fans ma, al contrario, entusiasmare le persone che non mi hanno mai seguito. Oh Vita! sviluppa un senso di urgenza nel celebrare la realtà in un’atmosfera nichilista sfamando lo scopo e la potenza della musica che sento in me. È una reazione sincera ad un dovere che mi sentivo di dover condividere.

In questo caso, cosa ricevi nell’attimo in cui lanci un nuovo album?

Sicuramente l’adrenalina. Ci sono due momenti, distanti ma complementari, essenziali: quando scrivo una canzone e mi rendo conto di quanto la musica o il ritornello possa funzionare e quando capisco, in un concerto, che il pezzo arriva davvero al cuore della gente. Potrebbe essere una curva dello stadio che balla ma anche la percezione che il brano possa essere ascoltato da una coppia nella loro intimità. Il risultato e la sensazione di aver colto nel segno per me sono emozionanti.

Com’eri 30 anni fa e cosa diresti ai giovani che vogliono approcciarsi a questa carriera?

Era un altro pianeta, senza internet senza le chat o i social. Riproponendo una frase tipicamente italiana, è cambiato tutto per non cambiare nulla. Quello che conta, cioè il talento, è universale e insostituibile sia 30 anni fa che ora. La musica oggi è più democratica: se sei bravo non c’è bisogno di una casa discografica con un contratto da firmare, a volte basta You Tube ma è necessario che ci sia una passione, una motivazione talmente forte per cui non potresti vivere senza.

A proposito di motivazione, sei stato in Nuova Zelanda, in bici, in condizione climatiche estreme: hai trovato lì l’ispirazione?

In realtà no. Avevo bisogno di allontanarmi da me stesso, dalla fama, per gestirmi un percorso in solitudine che mi aprisse la mente senza la clausola di creare musica. Avevo bisogno di rinfrescarmi l’anima, di uscire dal personaggio pubblico e andarmene. È stata una prova fisica dura ma mai quanto quella di affrontare il tour che è veramente impegnativo perché non sei in solitaria ma in un ingranaggio in cui il protagonista è insostituibile. Alla fine di ogni concerto io sono talmente stanco che dubito ogni volta di riuscire a sostenere un altro spettacolo ma l’entusiasmo di stare davanti al pubblico rinasce ogni volta. In questo tour voglio regalare, a chi compra il biglietto, la possibilità di far parte del concerto, di sentirsi sul palco con me, di star dentro allo spettacolo e di godere da spettatore. Quello che è pazzesco non è solo la band o il cantante ma il pubblico stesso. Deve essere una full immersion, non virtuale, che mi auguro di riuscire a donare sfruttando al minimo la tecnologia.

Un tour, quindi, in cui non ti risparmi. Ti senti particolarmente libero in questo disco o c’è una parte di te che non hai ancora espresso?

Non mi sono sentito più libero del passato in realtà. Non è mai una passeggiata un album ma questa volta mi sono sentito benedetto perché ero in uno studio con una leggenda come Rick Rubin. La stessa sensazione che ho provato con Claudio Cecchetto all’inizio. Questi produttori mi hanno offerto tutto quello che io amavo e volevo. Ora… non so se c’è una parte inespressa in me. Per esempio, non avrei mai creduto a vent’anni, quando facevo rap, di poter scrivere canzoni romantiche ma poi invece è successo. Mi piacerebbe esprimermi con testi di narrativa, raccontare storie, non lo escludo.

Riguardo ai social, qual è il tuo rapporto con gli haters?

Sinceramente devo dire che ho una percentuale molto bassa di haters, sono più preoccupato per la strumentalizzazione per scopi politici, per esempio. È diventato difficile riuscire a inviare veramente il tuo messaggio senza che qualcuno lo usi a suo favore o distorcendone il significato. È la natura della rete, difficilmente gestibile.

Invece l’approccio verso la critica musicale?

La critica musicale, vista come il giudizio degli utenti dei social, degli ultimi anni non è molto valida perché si è trasformata più in una critica emotiva che competente. Si può usare come raccolta di dati per valutare il successo o meno di una canzone ma, per me, la critica è quello che aiuta un artista a confrontarsi e capire, nel bene o nel male, cosa ha prodotto sulle basi della carriera precedente e in prospettiva di una carriera futura. È sempre stata molto utile nel mio lavoro. Per quanto mi riguarda non c’è un rapporto conflittuale e lo conferma il fatto che nell’Enciclopedia del rock della Garzanti io figuro come il cantante italiano con il maggior numero di album giudicati a cinque stelle! Oggi esiste solo una cronaca delle pubblicazioni di un artista e manca la professionalità perché le recensioni competenti sono interessanti e sicuramente fondamentali per la discografia.

 

Osservazione, quest’ultima, che ci ricorda proprio la scomparsa di critici come quel “Bertoncelli che sparava cazzate” citato dal suo amico Guccini nella famosa Avvelenata degli anni settanta. Lorenzo finisce la conferenza stampa in cui è stato prodigo di risposte da cui apprendiamo qual è il suo vero successo: Jovanotti non scrive per se stesso, per riuscire, come capita ad altri artisti, a decantare la propria vita attraverso i testi e le note. È il suo bisogno onesto e urgente di condividere una visuale, comprensibilmente soggettiva, che merita di essere tenuta in considerazione perché indirizzata alla celebrazione del regalo più grande che ci è stato donato: Oh Vita!